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La nostra esperienza degli schermi elettronici e digitali può considerarsi come la pars pro toto di quel “dispositivo” (nell’ampio l’ampio significato socio-culturale attribuito a questo termine da Foucault) che ci sta avviluppando. Per questo ritengo decisivo elaborare quanto chiamerei un’antropologia degli schermi, alla quale ritengo possa contribuire la valenza euristica offerta da quanto ho proposto di definire “archi-schermo”, da intendersi quale principio transistorico della mostrazione e insieme dell’occultamento istituito dal potere di rendere visibile e nel contempo di rendere invisibile che è intrinseco agli schermi. Tale principio contribuisce dunque a produrre, in diversi contesti storico-culturali, diversi regimi di visibilità. A sua volta, ciascuno di essi s’intreccia ad un certo regime di dicibilità ed insieme essi dirigono l’attenzione e l’inattenzione dei nostri sguardi quanto quelle dei nostri discorsi. A tale proposito, il display – il cui nome tende oggi ad affiancare o addirittura a sostituire la parola “schermo”, attribuendo alla superficie che designa l’esclusiva funzione di esporre – si dimostra emblematico degli attuali regimi di visibilità e dicibilità. Esso contribuisce infatti a affermare l’ideologia di quella che ironicamente classifico “Trasparenza 2.0”. Tale ideologia identifica il significato della trasparenza con la pretesa assenza di ogni mediazione e comporta perciò implicazioni di grande rilievo anche politico. |