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Il contributo indaga la ricezione cinquecentesca dell’incipit dell’Eneide come modello di proemio per il poema epico soffermandosi in particolare sul trattamento dei quattro versi («Ille ego qui quondam...») che secondo Donato e Servio avrebbero originariamente costituito la prima parte di un proemio più esteso e sarebbero poi stati espunti dagli editori del poema. Largamente circolanti nelle edizioni cinquecentesche, anche con il corredo di apposite note esegetiche, nella seconda metà del secolo i versi compaiono in poetiche e altri trattati volgari (Castelvetro, Speroni, Tasso) con la funzione di esemplificare l’applicazione di precetti relativi al proemio, come la dottrina retorica dell’exordium e le prescrizioni oraziane per l’incipit epico formulate nell’Ars poetica. Lo scopo del saggio è evidenziare quali rilievi consolidatisi nella tradizione esegetica vengono ripresi nella trattatistica, tentando di verificare se e in quale misura il proemio spurio poteva rappresentare, almeno teoricamente, un modello alternativo rispetto al canonico «Arma virumque cano». |