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In virtù di una metodologia di analisi intesa a legare strettamente l’attenzione alle ragioni della scrittura per la scena alla necessità di aderire intimamente alla concreta materialità dell’esperienza teatrale, il saggio affronta la questione della nota difficoltà di rappresentare la drammaturgia di Koltès, o se si preferisce della vocazione dello scrittore a spingere la propria opera ai confini dell’irrappresentabilità, da un punto di vista squisitamente topologico, adottando la scena informale o surreale di “Sallinger” (1977) a campo privilegiato di studio. L’onirica geometria non euclidea su cui si sostanzia la drammaturgia koltèsiana, segnatamente nel caso della liberissima reinvenzione del “Giovane Holden” tentata dallo scrittore di Metz, per un verso sembra così anticipare la liquidità dei “non luoghi” contemporanei, ma per l’altro si declina pure come estrema isola avanguardistica in cui ritagliarsi la possibilità di un sogno rivoluzionario. |