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Dopo essere state a lungo ostaggio di scritti apologetici o polemici, le lettere di Giovan Luigi Pascale e la storia di Galeazzo Caracciolo hanno negli ultimi decenni attirato l’attenzione di studiosi non confessionalmente connotati, finendo un po’ per diventare l’esempio di due diverse risposte – il martirio o la fuga – alla necessità divenuta prioritaria in età confessionale di dare pubblica testimonianza della propria fede. Ma ai nostri occhi esse costituiscono soprattutto una illustrazione convincente della necessità di distinguere la Riforma in Italia dalla Riforma italiana, e di mostrare così, al di là del fallimento evidente della prima, l’importanza del contributo italiano al movimento riformato europeo. Ora, anche perché esse appartengono a tipologie testuali differenti – una testimonianza alla prima persona, quando gli eventi sono ancora in corso nel primo caso; una storia raccontata alla terza persona e a trent’anni di distanza dai fatti narrati nel secondo, le due opere analizzate hanno conosciuto modalità di diffusione apparentemente molto diverse. Venti delle lettere dal carcere di Pascale circolano infatti in lingua italiana all’interno della Historia delle grandi e crudeli persecutioni di Scipione Lentolo, approntata definitivamente per la stampa nel 1595 ma rimasta manoscritta fino agli inizi del XX secolo, ed una traduzione francese, di sole dodici lettere, è invece contenuta all’interno del catalogo ufficiale degli eletti, il martirologio ginevrino di Jean Crespin, a partire dall’edizione del 1563. La storia della vita di Galeazzo Caracciolo, ad opera di Nicolò Balbani, pastore della Chiesa italiana di Ginevra, viene qui pubblicata in italiano nel 1587 ed ha immediatamente diritto a traduzioni in latino, inglese, tedesco; mentre si sono perse le tracce della traduzione francese coeva, assegnata secondo registrazioni d’archivio a Simon Goulart, ci restano oggi due versioni in questa lingua messe a punto alla vigilia dell’Editto di Nantes. Guardati più da vicino, i due scritti hanno però molto in comune, e non solo se si tiene conto della natura pastorale e non privata della corrispondenza del Pascale, così come della consuetudine conservata almeno fino a tutto il secolo XVII, di far circolare testi in forma manoscritta contemporaneamente alla loro versione a stampa. Ideati e realizzati da un pastore con il fine dichiarato di fornire modelli di comportamento, oltre che mezzi di consolazione al proprio gregge, entrambi sono presto inseriti in un circuito ben più ampio, diventando oggetto di una campagna stampa internazionale. Ciò fu reso possibile, certo, dal fatto che si trattava di testi sostanzialmente ortodossi, cioè vicini alla posizione assunta da Calvino nelle dispute che lo avevano opposto ai nicodemiti (e non solo!) tra gli eterodossi italiani. Ma quanto ha contato il ricorso pur non dichiarato da parte dei due ecclesiastici a strategie letterarie, e cioè il passaggio, per dirla con Aristotele, dall’universo storico sottoposto al particolare a quello letterario volto all’universale? |