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Quando si accinge a scrivere le prime pagine di Infanzia berlinese, nel 1932, Walter Benjamin dichiara di voler prendere a modello Paris vécu di Léon Daudet, del quale aveva già segnalato in un saggio di qualche anno prima l’«ispirazione eminentemente proustiana». Daudet sarebbe infatti il «precursore» delle autobiografie che non si sviluppano più «sullo schema cronologico, ma su quello topografico», assegnando allo stradario una funzione strutturale e concependo quindi il tempo «nella sua forma più reale, e cioè intrecciata con lo spazio». La conferma di quanto l’intuizione di Benjamin fosse corretta, allora, la si potrebbe ricavare già dai saggi teorici in cui, a partire dagli anni Dieci, Daudet elabora una personalissima filosofia del soggetto che il dispiegamento della memoria sulle strade di Paris vécu si limita a ratificare. Sono infatti le categorie apparentemente folli di hérédo-présence, système psychostellaire o personimage (solo per citarne alcune) che pur non affiorando alla superficie del testo su Parigi ne costituiscono le premesse, coinvolgendo la città e le sue architetture in un’impresa autobiografica che lo stesso Daudet definisce «semantica dei luoghi». |