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Pur se appare avviarsi a definizione l’antica questione dell’impossibilità della traduzione (come negare ormai la necessità, l’utilità, ma anche la dignità di questo atto?), non per questo si è fatto meno vivace il confronto su alcune problematiche legate all’atto del tradurre e al sempre più sfumato confine tra lingue e culture, che a quest’atto attribuisce libertà e responsabilità. Una sfida da vivere come momento vivificante, soprattutto se il “problema” del tradurre viene inteso nel giusto senso, ovvero come “qualcosa che deve essere risolto”. Il punto, a mio parere, è esattamente questo: tradurre è in gran parte risolvere, sciogliere e liberare, in una lingua nuova, un senso “incatenato” in una forma che appare perfettamente compiuta e composta nella lingua originale. E’ su questo stato, apparentemente immodificabile, che si esercita il senso stesso del rigore e della libertà in traduzione: il modo in cui il significato viene ricostituito è, in parte essenziale, funzionale alla variazione diatopica e diamesica, ed è in funzione di tale variazione che vanno cercate le giuste risposte. Il nostro tempo vede convivere questi aspetti e nuove realtà: all’intreccio del parlato (basti pensare alla mutevolezza degli “inglesi” parlati nel mondo) si sovrappone la stratificazione linguistica e culturale delle manifestazioni testuali scritte. Il saggio prende spunto da un recente dramma, The Al-Hamlet Summit, premiato all’Edimburgh Fringe Festival (2004), un testo che affonda le sue radici nell’Hamlet shakespeariano, per riposizionarlo cronologicamente, geograficamente e culturalmente, manipolando linguaggi e situazioni che l’intervento traduttivo dovrà, a sua volta, rimanipolare. Quali “anelli” della catena del linguaggio è possibile spezzare o, almeno in parte, allentare? |