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Inferno, canto XXIX. Dante è con Virgilio nella bolgia dei falsari. Gli si presenta allora l’ombra di tale Capocchio – sprofondato nel tormento eterno per aver manipolato «li metalli con l’alchimia» – e, proprio prima che il canto dilegui, offre al poeta gli strumenti per una possibile agnizione: «e te dee ricordar, se ben t’adocchio / com’io fui di natura buona scimia». L’orgoglio evidente con cui l’ultima battuta è pronunciata contrasta con la terribilità del luogo e della punizione a cui Capocchio è sottoposto. Quasi che nel suo personaggio – o meglio, nella contraddizione performativa tra la fierezza delle sue parole e il corpo piagato dalla «scabbia» – si venissero ad allacciare in equilibrio instabile due diverse tradizioni concettuali relative al tema dell’imitazione. Da un lato, la condanna platonica (e classica) della mimesis, ridotta a operazione di ʻscimmiottamentoʼ dell’Idea prodotta in natura dal dio (Rep., X, 597b), e quindi allontanamento dalla purezza del mondo noetico in direzione dell’infida mutevolezza delle apparenze fenomeniche. Dall’altro, la linea ellenistico-romana dell’aemulatio, della ripetizione differenziale dell’originale greco, il cui ʻprestigioʼ abilita la maestria dell’aemulator che lo ri-produce, e che riproducendolo però lo ri-forma. In una battuta: il primo indirizzo affiora nel sostantivo, la «scimia», il secondo nell’aggettivo che lo qualifica, «buona». Passività meccanica versus ri-attivazione virtuosistica: è questo, benché condensato in termini idealtipici, il senso dell’opposizione di fondo. Diritto vivente, l’ultima fatica di Sandro Chignola, può essere letto almeno in parte come il tentativo di far giocare il secondo corno contro il primo. |