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Siwa è lontana, così ne parlano al Cairo, come di un’oasi distante nello spazio e nel tempo. Tradizioni millenarie di derivazione berbera, territorio libico fin quasi al secolo scorso, antichissime culture dell’abitare il deserto, in tanti in un unico grande edificio. Shali, villaggio fortificato di origine medioevale, è l’insediamento in cui si riconosce un centro. L’immagine di Shali quando si arriva da lontano rimanda a quella di una massa di terra modellata dalla mano dell’uomo, che si innalza possente e si sfrangia verso l’alto come un merletto sfilato. In principio c’era l’altura e le case torre che ne disegnavano e puntualizzavano il profilo. Il rimando immediato è alle alte case torre di Shibam, la yemenita “Manhattan del deserto”, altre architetture in cui si mette in opera l’ossimoro dell’abitare torri nel deserto, dove il paesaggio simbolo delle basse densità viene tradotto nel tipo che dell’alta densità è quasi un’identificazione. La casa di Shali non è tipologicamente assimilabile alle case delle altre oasi egiziane, la corte, infatti, da generatore dell’impianto come era nelle altre oasi, diventa un ambiente interno centrale inserito in una regola che assume una generatrice geometrica, ove l’inserimento nell’ impianto urbano lo consenta. Spesso gli studiosi ricordano la similitudine con gli impianti urbani ed i sistemi insediativi di altre oasi, Kharga, Dakla, o le oasi marocchine, o ancora con il senso della spazialità urbana delle medine, il carattere che rende, al contrario, questo insediamento unico e che, a valle di tanti studi sulle culture dell’abitare mediterraneo, induce a ritornare a riflettere è nello speciale rapporto che qui si instaura tra forma costruita e forma di natura. A Siwa, come nella famosa rupe di Van Kalesi, questa relazione è intricata, al punto da non riuscire quasi a distinguere la natura dall’architettura, ma la chiave non è la mimesi. |