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Gli impatti della pandemia si sono diversamente manifestati in relazione sia ai caratteri ambientali, densità insediative e flussi che già segnavano le molte situazioni territoriali del nostro paese, sia alle diseguaglianze sociali, demografiche ed economiche di chi li abita. Se però osserviamo la ratio delle misure di distanziamento adottate durante le prime fasi della pandemia, ciò che emerge è la loro estensione pressoché universalistica a diversi contesti e persone. Un atteggiamento che, se prolungato oltre la gestione emergenziale, rischia di porre in secondo piano l’esigenza di calibrare strategie a misura di situazioni che, proprio per la loro configurazione – il riferimento è qui a piccoli centri, formazioni urbane disperse, condizioni di distanziamento per certi versi connaturate alle trame insediative – necessitano di soluzioni in grado di far fronte non tanto ai rischi della densità quanto a quelli di un eccesso di rarefazione e frammentazione di spazi pubblici e servizi, di pratiche sociali e attività economiche. Altrettanto importante è contrastare l’acuirsi delle differenze nel trattamento delle popolazioni urbane, riportando al centro del progetto le persone più fragili, il loro diritto a muoversi e vivere gli spazi delle città in autonomia (anziani, bambini, individui con disabilità o con gravi patologie). Ciò che Covid ha rimarcato è l’importanza di lavorare sulla qualità materiale degli spazi e delle attrezzature di interesse collettivo, sulle funzioni essenziali e multiple che una trama connessa e accessibile di servizi pubblici può svolgere anche in condizioni di emergenza. L’occasione per ragionare su come queste considerazioni trovino concreta declinazione ci è offerta dal lavoro in corso SLOW Aquileia. Un’agenda strategica per spazi re-ATTIVI durante e dopo Covid-19. |