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Il rapporto tra l’uomo e la morte è cambiato nel tempo ma, mentre per le epoche protostoriche e storiche la presenza di documenti scritti amplia la possibilità di interpretare i rinvenimenti archeologici, fornendo un quadro culturale di riferimento nel quale ricercare informazioni sulla concezione della morte, nella preistoria, e soprattutto prima che i contesti funerari siano chiaramente riconoscibili con la scoperta di vere e proprie sepolture (intorno a 200,000 anni fa), la documentazione disponibile è costituita essenzialmente dai resti scheletrici umani. Quindi il contributo dell’Antropologia fisica in questo contesto assume particolare rilevanza per la possibilità di fornire dati su eventuali interventi intenzionalmente praticati peri mortem o post mortem (smembramento, scarnificazione, accumulo di ossa, ecc.) in un’ottica paleoepidemiologica che tenga quindi conto del profilo biologico (età alla morte, sesso) dei resti esaminati. Un altro aspetto è quello relativo alla possibilità di fare luce e anticipare, rispetto a quanto noto e per ampi contesti geografici e temporali caratterizzati da nicchie ecologiche diverse, la comparsa di comportamenti che possono apparire del tutto inediti nonché anomali, in quanto non codificati ed estranei ai sistemi socio-culturali di riferimento. Alcune pratiche segnalate per la lontana preistoria si ritrovano infatti anche in epoche successive in ambiti anche molto diversi. Dal punto di vista metodologico la documentazione relativa ai resti scheletrici umani assume pari rilevanza rispetto a quella di altre discipline (e.g. etnologiche e storiche) fornendo, pur senza procedere per analogie forzate e attraverso semplificazioni statistiche, suggestioni, modelli e confronti per l’interpretazione dei contesti archeologici. |